Libri di Trading: Il Giocatore di Dostoevskij

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21 settembre 2010

Sui mercati finanziari la letteratura è quantomai copiosa, ma è anche utile?

Quanti libri di trading hai letto prima di scendere nell'arena?

Cinque, dieci eppure pare che nonostante uno legga molto e provi ad acculturarsi in questo ambito, non esista una diretta correlazione tra il tempo impiegato nelle letture e i guadagni che appaiono sul nostro profitandloss a fine giornata.

Qualcuno penserà di essere negato, qualcun altro perderà tutti i risparmi dei suoi famigliari e il circo andrà avanti.

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Photo Credit: jasonsewell


Il paradosso è che se uno sapesse come perdere tutto in borsa, potrebbe fare l'opposto e assicurarsi lauti guadagni. Le statistiche parlano chiaro. Il 90% perde soldi, il 5% riesce a conservare il proprio capitale e poi c'è un 5% di eletti che guadagna.

Ma un conto è vedere le statistiche, un altro discorso è vedere come le persone possano rovinarsi con le proprie mani. Ecco perchè oggi proporrò un estratto significativo di un libro che mi è capitato di leggere in questo periodo nel quale il mio blog è stato silente.

Esistono passaggi de "Il Giocatore" di Dostoevskij assolutamente illuminanti come il seguente (ovviamente consiglio vivamente la lettura dell'intero romanzo).


Erano le dieci e un quarto ed io entravo nel casinò animato da una speranza così salda e allo stesso tempo in preda a una tale esaltazione quale ancora non avevo mai provato. Nelle sale da gioco c'era ancora parecchia gente, anche se soltanto la metà che al mattino.

Dopo le dieci nelle sale da gioco rimangono soltanto gli autentici e accaniti giocatori, quelli per i quali nelle stazioni termali esiste soltanto la roulette e soltanto per quella ci sono venuti; gente che quasi non si accorge di quel che succede intorno a loro e per tutta la stagione non s'interessano a nient'altro; non fanno che giocare dal mattino fino a notte e magari sarebbero anche pronti a giocare tutta la notte fino all'alba, se soltanto fosse possibile. Quando a mezzanotte si chiude la ruolette questa gente se ne va indispettita, e quando il croupier-capo, prima della chiusura un po prima di mezzanotte, annuncia: «Les trois derniers coups, messieurs!» questa gente è pronta certe volte a puntare in tre soli colpi tutto quel che si trova in tasca, ed effettivamente è proprio allora che perdono di più. Sono andato direttamente al tavolo dove poco prima era seduta la nonna. Non c'era un grande affollamento, tanto che ben presto ho trovato un posto in piedi accanto al tavolo. Proprio davanti a me, sul panno verde stava scritto a lettere nere: «Passe». «Passe» sta ad indicare la serie di cifre dal diciannove al trentasei, mentre invece si chiama «manque» la serie di cifre dall'uno al diciotto. Ma a me che importava? Io non calcolavo, non avevo neppure sentito quale numero fosse uscito per ultimo, né l'avevo chiesto al momento di cominciare il gioco, come avrebbe senza dubbio fatto qualsiasi giocatore che calcolasse almeno un po le probabilità. Ho tirato fuori tutti e venti i miei federici e li ho buttati sul «passe» lì davanti a me.

«Vingt deux!» ha gridato il croupier.

Avevo vinto e di nuovo ho puntato tutto, sia quello che avevo già da prima che quello che avevo vinto.

«Trente et un,» ha gridato il croupier. Di nuovo avevo vinto; in tutto, quindi, avevo già ottanta federici! Ho messo tutti gli ottanta federici sulle dodici cifre mediane (si vince il triplo della puntata, ma ci sono due probabilità contro una); la pallina ha girato e si è fermata sul ventiquattro. Il croupier mi ha pagato con tre rotoli di cinquanta federici più altre dieci monete d'oro sciolte; dunque ora, con le vincite precedenti, mi trovavo padrone di duecento federici.

Ero come preso dalla febbre e nell'eccitazione ho puntato tutto il mio mucchio di denaro sul rosso e... improvvisamente sono tornato in me! E soltanto in quel momento, per tutta la serata e per tutta la durata del gioco, ho sentito un brivido di terrore corrermi per la schiena mentre mi prendeva un tremito alle mani e ai piedi. In un attimo mi sono reso conto con terrore cosa significava per me perdere: insieme a quell'oro puntavo tutta la mia vita!

«Rouge!» ha gridato il croupier e io ho tirato un sospiro di sollievo mentre un formicolio di fuoco mi correva per tutto il corpo. Mi hanno pagato con biglietti di banca questa volta: avevo allora in tutto quattromila fiorini e ottanta federici! (Ero ancora in grado di tenere il conto.)

Mi ricordo che poi ho puntato duemila fiorini di nuovo sulla dozzina di mezzo e ho perduto; poi ho puntato l'oro e gli ottanta federici e ho perduto ancora. Allora mi ha preso una specie di furore e ho puntato sulla prima dozzina i duemila fiorini rimasti, così a casaccio, senza stare a calcolare! Ricordo di aver vissuto un istante di attesa spasmodica, simile forse a quello che deve aver provato madame Blanchard quando a Parigi precipitò dall'aerostato a terra.

«Quatre!» ha gridato il croupier, e così in tutto, con la posta precedente, mi trovavo possessore di seimila fiorini. Avevo ormai l'aria di un trionfatore, non avevo più assolutamente paura di nulla e ho gettato quattromila fiorini sul nero. Una decina di persone si è affrettata a imitarmi puntando sul nero. I croupiers si scambiavano qualche parola e delle occhiate; la gente lì intorno chiacchierava e stava a vedere.

È uscito il nero. Da questo punto non ricordo più né l'ordine delle puntate né il calcolo delle vincite. Ricordo soltanto, come in sogno, che avevo già vinto, mi sembra, sedicimila fiorini, quando a un tratto con tre colpi sfortunati ne ho persi dodicimila; allora ho messo gli ultimi quattromila sul «passe» (ma in quel momento non sentivo ormai quasi più nulla: puntavo e aspettavo meccanicamente, senza pensare) e ho vinto, e poi ho vinto altre quattro volte di seguito. Ricordo soltanto che rastrellavo i soldi a migliaia e anche che uscivano più di frequente di tutti i numeri della dozzina di mezzo, a cui mi ero attaccato. Uscivano quasi regolarmente tre o quattro volte di seguito, quasi immancabilmente; poi si eclissavano per un paio di volte per poi tornare a uscire per tre o quattro volte di fila. Una tale eccezionale regolarità si riscontra talora per certi periodi, ed è proprio questo che fa perdere la bussola ai giocatori che fanno i loro calcoli con carta e matita in mano. E quali terribili scherzi gioca qui talora il destino!

Credo che non fosse passata nemmeno mezz'ora dal mio arrivo al tavolo da gioco quando a un tratto il croupier mi ha dichiarato che avevo già vinto trentamila fiorini e che siccome il banco non poteva rispondere per una somma maggiore in una sola volta, quella roulette si chiudeva fino al giorno dopo. Ho preso allora tutto il mio oro, ficcandomelo in tasca, ho arraffato le banconote e sono subito passato ad un altro tavolo, in un'altra sala dove c'era l'altra roulette. La folla mi si è precipitata dietro. Là mi è stato subito liberato un posto e subito mi sono rimesso a puntare a casaccio e senza calcolare, come prima. Non capisco proprio cosa mi abbia salvato!

Talora, tuttavia, mi venivano in mente certi calcoli e cominciavo a concentrarmi su certi numeri e certe probabilità, ma ben presto abbandonavo i calcoli e riprendevo a puntare a casaccio, quasi senza rendermi conto di quel che facevo. Evidentemente dovevo essere molto distratto, giacché ricordo che più volte i croupiers hanno corretto il mio gioco; ogni tanto infatti facevo degli errori grossolani. Mi si erano messi intorno i soliti polacchi offrendomi i loro servigi, ma io non davo retta a nessuno. La fortuna non mi abbandonava! A un tratto ho sentito ridere, e parlar forte lì intorno a me; tutti gridavano: «Bravo, bravo!» e alcuni battevano le mani. Anche a quel tavolo avevo vinto trentamila fiorini e il banco era stato chiuso fino al giorno dopo!

«Se ne vada, se ne vada,» mi ha sussurrato a un certo punto una voce da destra: era un ebreo di Francoforte che per tutto il tempo mi era stato vicino e, se non sbaglio, qualche volta mi aveva aiutato nel gioco.

«Per amor di Dio, se ne vada,» mi ha bisbigliato un'altra voce accanto all'orecchio sinistro. Questa era una signora vestita modestamente, ma molto decorosamente, sulla trentina, dal volto stanco e di un pallore malaticcio, ma che anche adesso faceva intravedere la meravigliosa bellezza di un tempo. In quel momento mi stavo riempiendo le tasche di biglietti spiegazzati e raccoglievo l'oro sparpagliato sul tavolo. Afferrato l'ultimo rotolo da cinquanta federici, sono riuscito, senza che nessuno se ne accorgesse, a farlo scivolare in mano alla signora pallida; mi era venuta improvvisamente una voglia terribile di farlo, e ricordo che le sue dita magre e sottili mi hanno stretto con forza la mano in segno della più viva riconoscenza. Tutto ciò si è svolto in un istante.

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